Marateoti con la valigia

Un viaggio lungo cent’anni

 

Saluti

Ringraziamenti

 

Qualche anno fa, quando ero piccolo, spesso a casa mia c’erano visite di parenti, amici e anche di tante persone, perché mia Mamma esercitando il mestiere di Sarta aveva molte clienti, che erano trattati e accuditi come parenti, e quindi anche non essendoci la televisione o gli smartphone, si discuteva e si parlava di tante cose e moltissime volte si parlava dei parenti che erano andati via, espatriati. I discorsi si intrecciavano perché sia nella famiglia di mio padre che in quella di Mamma ci sono stati emigranti, partiti per le terre lontane.

Ero affascinato dai racconti che ascoltavo e immagazzinando quei dati, fantasticavo su paesi di cui non avevo ne immagini e nemmeno idee di dove fossero e come potessero vivere quelle persone.

E questa curiosità mi ha permesso di mettere insieme le storie e quindi raccogliere fotografie per poter capire, perché la fotografia è uno spaccato indimenticabile di quel momento della vita di chi è immortalato.

Tanti sono stati gli emigranti nella storia di Maratea, un po’ come in tanti paesi del Sud.

Un grande flusso di Marateoti all’estero si ebbe nella seconda metà del XIX secolo, appena dopo l’unità d’Italia, o meglio dal 1865 in poi.

Molti giovani, pur di sfuggire all’obbligo del servizio militare imposto dallo Stato Piemontese, come era chiamato, preferivano fuggire all’estero pur rischiando il carcere se renitenti alla leva. Perché? Durante il regno delle Due Sicilie l’obbligo militare veniva effettuato con un sorteggio a cui facilmente si poteva eludere, anzi molti ragazzi si arruolavano volontari, dato lo scarso impegno lavorativo richiesto. Dopo il 1861 leggi e regolamenti cambiarono e così tanti giovani preferivano andarsene dall’Italia.

La Francia, il Brasile e il Venezuela erano i paesi più richiesti da chi voleva emigrare, perché in quei paesi già si erano create piccole comunità di Marateoti.

Così, tanto per cominciare, un mio antenato tale Luigi Calderano, questa è storia di famiglia, visitato dalle guardie piemontesi di presentarsi il giorno successivo a Lagonegro per essere arruolato di leva, nella notte si imbarcò al Porto con una piccola barca e si fece trasportare sino a Vibo Valentia e da lì, con una barca più grande arrivò a Napoli per imbarcarsi poi per il Brasile dove già erano Marateoti. Juis de Fora era la cittadina a Nord di Rio de Janeiro dove si sposò ed ebbe otto figli, 35 nipoti e una miriade di pronipoti…

Ho citato questo mio antenato solo come esempio, ma come lui ce ne sarebbero tanti.

Il Brasile è stato un paese molto richiesto dai nostri emigranti specialmente della zona di Massa, così come molti altri giovani di Massa, invece, emigrarono in Messico.

Nel Paese, nella Valle, al Porto, a Fiumicello e a Cersuta la maggioranza preferiva emigrare in Venezuela, mentre la Valle alta: Santa Maria, Curzo e Campo si dirigeva nella Francia del Sud.

Ma i Marateoti andavano un po’ per tutto il mondo: vediamo Biagio Santoro, originario di Acquafredda, e qui fotografato nel giorno del suo matrimonio a Cuenca – Spagna- nella regione di Castiglia. Ancora in Spagna nella zona di Arcos de la Frontera, paese della Comunità dell’Andalusia, cittadina da cui discendono i miei antenati, famiglia Calderano, da tradizione orale di cittadini Spagnoli, un buon numero di Marateoti si recava nel periodo invernale in quelle zone a preparare i salami alla nostra maniera e posso testimoniare che ancora preparano lo chorizo, il nostro zazicchio, come lo facciamo noi con il pepe rosso e il finocchio. Vi mostro la foto di una coppia , entrambi figli di marateoti che erano emigrati a Caravaca de la Cruz, provincia della Murcia.

Un altro emigrato e personaggio importante fu Macario Grisolia  console Italiano nelle Antille, ma non fu l’unico console Italiano emigrato: Filippo Bombace, emigrato a Santo Domingo e titolare di una azienda di export di caffè , era Console ad Haiti e alcuni Marateoti andarono a lavorare ad Haiti tra cui Benito Stoppelli e Biagio Giglio (Giglietto)   . Non dimentichiamo Domingo Limongi , figlio di Giovanni che era emigrato in Venezuela, ed è stato Console del Venezuela a Napoli e a Bilbao in Spagna.

Anche un prelato di Maratea emigrò in Venezuela dopo la seconda guerra mondiale, si dice per contrasti con gli Oblati di Maratea, era l’Arciprete Don Gaetano Santoro.

Nel periodo tra le due guerre la mancanza di lavoro, la fame, la necessità di dar da mangiare ai figli, mogli e anziani genitori, spinse ulteriormente i giovani ad emigrare e così partivano per le lontane terre i nostri giovani, molti dei quali non sarebbero mai più tornati perché, come si usava dire, “si su persi pi’ inda sti terri”.

Partivano prima i padri e dopo i figli       , oppure i fratelli          e quando la posizione economica migliorava, le famiglie si ricongiungevano e quindi mariti e mogli insieme e quando era possibile anche i figli con i genitori                                                  

Naturalmente gli amici non erano trascurati e anzi ci si adoperava per avere il “famoso atto di chiamata”, e cosa era? un cittadino che già risiedeva fuori Italia, tramite ambasciata o consolato, inviava una richiesta ad un suo amico per avere un aiuto di lavoro e assicurava ai due governi, lo stato in cui viveva e a quello Italiano, che all’amico chiamato dava ospitalità garantita per almeno tre mesi di vitto e alloggio. Dopo gli assenzi governativi si concedeva il visto agli italiani di poter viaggiare.

Le imbarcazioni che attraversavano l’oceano non erano certamente come le attuali navi da crociera, ma spesso erano delle vecchie navi a vela a cui erano stati adattati i motori. Possiamo immaginare quindi come erano stipati nelle tre classi di merito-economico: prima, seconda e terza classe. La terza classe, che descrive molto bene il cantautore Francesco De Gregori nella canzone Titanic, era la classe che adottavano quasi i tutti i migranti, perché la più economica e i passeggeri erano tutti ammassati notte e giorno e fino all’arrivo a destinazione e non potevano dividere gli spazi comuni alle altre classi. Le prime navi erano così  e i passeggeri arrivavano in posti come questi e poi in tempi più prossimi, e faccio riferimento agli anni ’50, la vita a bordo sui transatlantici era migliorata.        .

I nostri migranti si adattarono a mille mestieri, pur di ritornare in patria con qualche risparmio e dimostrare che erano riusciti ad essere “un qualcuno”. Tanti, anzi molti non tornarono più a Maratea, però riuscirono bene ad espandere le loro attività e a finanziare con le loro rimesse i parenti che restavano in paese          .

Altri, meno fortunati, venivano rimpatriati con il Biglietto del Console, rimpatrio obbligatorio e, altri ancora, che passavano a miglior vita  venivano assistiti dagli aiuti di altri compaesani    .

Quando lo status economico era migliorato, con l’acquisto di vestiti nuovi, si inviavano le foto anche per dimostrare le loro condizioni. Vediamo alcune foto             . 

Si è sempre detto che i sapienti sono: chi legge, chi domanda e chi viaggia; possiamo anche dire che il nostro paese, rispetto all’hinterland che ci circonda era diverso per la presenza di scuole, per la presenza continua di altri cittadini che transitavano per Maratea per le scuole, per l’ospedale, per la ferrovia, e per un gran numero di nostri cittadini che ritornati in patria ripresentavano quella vita di permanenza all’estero che li aveva forgiati dopo aver conosciuto tanti altri modi di vivere e voglio qui ricordare Antonio Schettino di Massa, che chiamavano ‘u Massaiolo  (079a), creatore di un grandissimo negozio dell’epoca in Via Mandarini con 4 porte comunicanti, grande imprenditore con varie attività tra cui una fabbrica di mattoni, importatore ed esportatore di agrumi; e i fratelli Biagio e Donato Limongi Quaglialatte che crearono anche loro in via Mandarini un grande negozio di corsetterie, tessuti e articoli per sartorie; non voglio dimenticare Giovanni Schettini che costruì il grande Collegio Lucano Maschile, sede dell’attuale Municipio in piazza Vitolo e Antonio Cernicchiaro, che fondò “Casa Lucana, con tanti negozi collegati in molti paesi della Basilicata dove si vendevano le prime "Cucine Economiche" e Cucine a Gas, bombole di Gas liquido, le prime Radio, macchine da cucire e fu il primo a credere nello sviluppo turistico di Maratea organizzando le prime gite con autobus dai centri limitrofi a Maratea e ritorno. E' doveroso ricordare Giovanni Buraglia , a cui fu intitolata l'omonima piazza nel Centro di Maratea con le donazioni elargite dai figli al Sindaco Biagio Vitolo e ancora un altro benefattore Carlo Vitolo, qui ritratto il giorno del suo matrimonio , che con la sua donazione al Sindaco Francesco Sisinni ha permesso la costruzione della Fontana con la Sirena nell'ex Laorgo Immacolata, ed ora Piazza Biagio Vitolo.

Le comunicazioni verbali dall’estero a Maratea erano un po’ complicate, dato l’alto numero di analfabetismo. Ricordo tante persone, vergognose, timide, che venivano a chiedere a mia mamma di scrivere le lettere ai loro familiari: sto parlando egli anni 1950-60.   Vi mostro invece un esempio di lettera inviata da Giulio Calderano al padre Luigi: comincia 18 aprile 1839, Veneratissimo Mio Sig. Padre, ecc. e conclude Vi bacio le mani in unione di Mamma e salutando a tutti e S.Biagio mi dichiaro Vostro Affezionatissimo figlio Giulio. La lettera era su carta pergamena, ma ora utilizziamo gli SMS o meglio WhatsApp.

Sempre pensando a San Biagio   una ragazza invia al padre una reliquia di San Biagio. Il nostro Santo è sempre stato presente: era usanza che l’ultimo saluto prima di partire da Maratea e il primo appena si rientrava, si facesse al Castello, sinonimo per dire San Biagio.

Ancora una lettera che certifica lo stato libero di non aver contratto matrimonio in Venezuela di Biagio Dattoli, il gioielliere che era emigrato in La Guayra e che abbiamo incontrato prima; un biglietto di solo andata per il Venezuela in terza classe; una richiesta di sospensione della leva militare e una cartellina di schedatura in Brasile a  cui erano sottoposti tutti gli emigrati che arrivavano in quel Paese.

Ma ritornando al nostro Protettore, in Caracas, grazie a Biagio Ignacchiti  , anche lui emigrato, si tiene ogni anno una festa molto simile alla nostra . Voglio ricordare che Biagio Ignacchiti e stato un gran sostenitore della nostra Festa di San Biagio a Maratea: raccoglieva molte somme di danaro tra tutti i Marateoti che risiedevano in Caracas e le inviava al Comitato dei Festeggiamenti per la festa di Maggio e tanto si è occupato ed aiutato i nostri compaesani in Venezuela.

Non dimentichiamo, però, che tutti i nostri compaesani, che economicamente potevano, venivano ad assistere l’arrivo di San Biagio il giovedì della festa e si ascoltavano i saluti che si scambiavano con accenti di varie lingue e spesso di dialetti dell’Alta Italia.

Mi avvio alla conclusione.

Finora abbiamo parlato e visto immagini che erano il lato migliore della medaglia: invece il rovescio è stato di molti che non hanno fatto più ritorno e di cui si sono perse le tracce. Tra tanti migranti, voglio ricordarne uno che mi stava molto a cuore: Felipe . Tornato dalla guerra e insieme con due sorelle, a stento riuscivano a mangiare con il poco pescato e con i libani che intrecciavano le sorelle. Non aveva una barca, ma con molti sacrifici e privazioni riuscì a comperare un biglietto per il Venezuela ed essere ospitato da suoi parenti che dopo pochi giorni gli fecero capire che doveva arrangiarsi da solo e la sua unica soluzione fu il rancito, cioè una piccola capanna di canne ai margini della capitale Caracas. Visse di espedienti sempre onesti, ma non riuscì mai ad accumulare i soldi necessari per comprare un biglietto di ritorno. La sua fortuna, se così si può dire, fu che lo Stato Venezuelano, dovendo urbanizzare la zona dove viveva, gli espropriò il rancito e lo indennizzo con una somma sufficiente per ritornare in Italia. Dopo oltre cinquant’anni di permanenza a Caracas, non parlava né Italiano, né spagnolo e nemmeno il dialetto del Porto, ma una miscela delle tre lingue. Arrivato al Porto, dichiarò ai suoi amici che voleva acquistare una tomba, perché almeno da morto voleva riposare in pace.

Dopo questo momento un po’ triste desidero mostrarvi una foto di un giornale di Pittsburgh, in Pennsylvania U.S.A. dove la mia Mamma si recò a trovare due sue sorelle che erano partite da Maratea negli anni ’20 e una delle due non era mai più venuta in Italia.

Ci sono vite che scorrono anonime nell’ombra della storia, eppure racchiudono la forza di un’intera epoca. Antonio Corrado Limongi, nato a Maratea il 1° agosto 1879 da famiglia agiata, fu una di queste figure. Avvocato colto, dinamico e intraprendente, già nei primi anni del ’900 si fece notare nella sua terra natale per il forte impegno politico, amministrativo e filantropico. Si mise in luce grazie alle sue numerose azioni di soccorso civile come per i danneggiati dal terremoto di Calabria e Sicilia del 1898, in qualità di presidente dell’Istituto femminile "De Pino" che fece ristrutturare nel 1902 o come contestato sindaco di Maratea con un programma sociale avanzato con il quale si augurava di: "Mandare ad effetti il programma del Partito Operaio che mira esclusivamente alla prosperità ed al benessere del paese" come il locale Ospedale Civile. L’Avvocato Antonio Corrado Limongi  , uomo brillante e colto: era iscritto all’albo dei procuratori dal 1902. Presidente dell’Istituto De Pino che fece restaurare. Nel 1908 fu eletto sindaco di Maratea e nel 1910 inaugurò l’ospedale civile di Maratea. Un duro scontro con il Cardinale Casimiro Gennari fece si che il 12 marzo del 1912 fu sciolto il suo Consiglio Comunale e nel 1913 fu “costretto” ad emigrare in Brasile: le sue idee cozzavano con i “dissensi” e sullo “spirito pubblico” che si stava diffondendo. A Rio de Janeiro trovò una comunità italiana numerosa e viva, che presto lo accolse come guida morale e organizzativa. Presiedette più volte la prestigiosa Società Italiana di Beneficenza, fondata nel 1854 su iniziativa di Teresa Cristina Borbone, sorella del re di Napoli e moglie dell’imperatore del Brasile per fornire assistenza agli italiani di Rio de Janeiro. Promosse importanti iniziative culturali e mutualistiche di grande respiro come per l’impresa di Fiume di D’Annunzio o per gli anniversari del "XX settembre 1870" in qualità di Gran Venerabile della loggia massonica «Fratellanza Italiana». Da convinto repubblicano ricordò al grande pubblico la figura dello zoologo e botanico italiano Libero Badarò, famoso per il suo epitaffio: «Se con me muore un liberale, non muore però la libertà» mettendo così in chiaro le proprie idee politiche. Data l’enorme notorietà raggiunta e i meriti acquisiti, il 17 febbraio 1921 il re d’Italia lo insigniva comunque del titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona. La vera svolta alla vita di Limongi arrivò negli anni ’20. In un contesto in cui il fascismo italiano cercava di estendere la propria influenza anche in Sud America, Limongi scelse senza esitazione da che parte stare. Repubblicano convinto si è detto, nel dicembre 1924, dopo la morte del deputato Matteotti, fondò con altri connazionali l’Unione Democratica Italiana, primo gruppo antifascista italo-brasiliano.Da quel momento divenne un bersaglio: attacchi sulla stampa, campagne diffamatorie, minacce personali e scontri diretti con gli esponenti filofascisti. Il conflitto culminò nel 1934 con il famoso "Caso Limongi", ovvero quando, su pressione dell’Ambasciata italiana, il governo brasiliano di Getúlio Vargas lo fece arrestare ed espellere, imbarcandolo sul "Conte Grande" e deportandolo in Italia senza nemmeno attendere l’esito delle sue richieste legali. Difeso fortemente da importanti deputati della minoranza della sinistra brasiliana come Acúrcio Torres e Adolfo Bergamini, la loro azione risultò inutile ma di fatto lo resero celebre in tutto il Brasile come simbolo della repressione del governo Vargas. Fu confinato proprio a Maratea, sorvegliato speciale e perquisito di frequente, costretto ad un isolamento politico e sociale che durò fino al 1939. Solo allora poté rientrare in Brasile, dopo aver formalmente promesso di astenersi da qualunque attività politica. Stabilitosi a Niterói, scelse un profilo pubblico più prudente, ma non rinunciò a raccontare le ingiustizie subite e a ribadire il proprio antifascismo. Durante la Seconda guerra mondiale evitò lo scontro diretto, concentrandosi sulla ricostruzione economica della famiglia, duramente colpita dagli anni di persecuzione. Nel 1941 ottenne ufficialmente la cittadinanza brasiliana, mentre due anni dopo, la stampa ricordò la sua vicenda come esempio delle repressioni fasciste contro gli italiani liberi all’estero. Nel 1945, alla fine del conflitto, Limongi chiese un procedimento giudiziario contro coloro che avevano orchestrato la sua espulsione e rovina economica. Morì pochi mesi dopo, il 30 giugno 1945, in quasi totale anonimato. Il suo nome, oggi poco noto, rappresenta però una pagina importante della storia dell’emigrazione italiana: quella di chi, lontano dalla patria, difese con coraggio la libertà politica e la dignità della propria comunità, pagando un prezzo altissimo in termini personali e professionali.  Il deputato brasileiro Torres, nel 1946, nel Parlamento, ricordando il Limongi, ebbe a lamentarsi dei pochi riconoscimenti a lui attribuiti “dopo i massimi servizi resi al Brasile contro il nazifascismo”.

Concludo, ricordando che con la costruzione del Lanificio di Maratea si arrestò in modo quasi definitivo la partenza dei ragazzi all’estero, tranne di operai dell’ex fabbrica, dopo dismessa e trasformata dalla Lebole, che partirono per lavorare in Svizzera.  

Oggi, purtroppo i migliori figli, i giovani di Maratea, si allontanano per andare all’Università a studiare e non tornano più: una emigrazione meno drammatica, meno triste, ma in questa scacchiera di gioco restano solo gli anziani re e le regine, i disarcionati cavalieri, gli stanchi alfieri e le dirute torri, mentre tutte le migliori pedine sono soffiate dal mondo e noi qui, oramai una generazione di anziani, aspettiamo le vacanze estive per riabbracciare i nostri figli, sperando che le radici che li avevano visti nascere non si siano troncate!

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