"Garamm": i vuoti
del Cuore
di Maria Carmela Brandi
La
notte successiva all’arrivo trascorre tra veglia e sonno, come se volessi colmare
il vuoto che mi separa dall’ultima volta in cui sono stata qui.
La
casa dove sono nata sorge sulla costa.
Sono
seduta davanti al balcone, si vede la montagna che sovrasta il golfo.
Sin
da bambina mi piace seguire con lo sguardo i contorni del monte, dalla cima
seguo il suo profilo, che dirada dolcemente verso il mare e poi si prolunga,
quasi ad assumere l’aspetto di un braccio che voglia proteggere la spiaggia ai
suoi piedi, proprio come fa una mamma con il suo bambino.
Ai
miei occhi la natura si anima e quel braccio inizia a cullare la sabbia ed io
desidero così di immergermi in essa come se ne volessi fare parte pienamente e
divento quel bambino.
Ritorno
alla realtà, sorseggio il caffè caldo. Intorno il silenzio. Mi illudo di
sentire i passi di papà e il profumo del minestrone dalla cucina.
Riporto
la mente ai ricordi, un tempo era tutto più semplice, nessuna barriera e niente
poteva ostacolare la mia fantasia, spesso vagavo con la mente e mi ritrovavo ad
essere la protagonista di mille avventure, proprio come mi sta accadendo ora.
Tante
sensazioni mi riempivano l’anima ed era veramente difficile esprimerle in modo
equilibrato da non apparire strana agli occhi degli altri e soprattutto a
quelli di mia madre.
Ma la
cosa che amavo di più era stare in compagnia di papà, con lui potevo fare
tutto, perché era il solo a comprendere veramente il carattere della sua
bambina e le mie fantasie.
In
paese lo chiamavano Pasquito. Un modo un po’
spagnoleggiante, come se il Venezuela se lo portasse ancora addosso.
Ci
aveva vissuto per anni laggiù, e quando è tornato… era giusto l’età per pensare
al matrimonio.
Aveva
sposato mia madre, pensando poi di riprendere la nave per il sud America, ha
invece deciso di restare a Maratea.
Da
ragazzo, il mare ce l’aveva già nel sangue. Non c’era verso di tenerlo lontano.
Conosceva ogni scoglio, ogni grotta, ogni respiro di quel mare. E sapeva che
certe bellezze, prima o poi, ti fanno tornare.
E
lui lo sapeva che il mare è invitante e accogliente, in tempo di bonaccia,
diceva, proprio come una bellissima donna suadente, che allarga le braccia e lo
sguardo come per ammaliare, ma nasconde mistero e inganno.
Aveva passato
tanto tempo a parlare con il mare, a sentire le sue ombre mentre gettava le
reti.
Diceva che il mare
ha la sua voce, basta saperla ascoltare in silenzio.
Poi,
nei pomeriggi d’estate, quando il sole picchiava e il lavoro era fermo, si
ritrovava con gli amici. Era importante per loro, stare insieme e scambiarsi
due parole.
Di
solito si vedevano a casa di Vincenzo, che tutti chiamavano Picareddo,
perché era piccoletto ma sveglio come una volpe, oppure da Scicco,
un tipo buffo con le mani grosse e la risata che gli scappava sempre fuori
posto.
A
quei tempi, nessuno si chiamava mai per nome.
Ai
racconti di azioni di pesca, faceva da sfondo il lento e attento lavoro di
riparazione delle reti, tirate su la mattina stessa. Le loro espressioni
soddisfatte seguivano i movimenti delle dita che tenevano la lesina con
maestria, perché erano rientrati con la barca piena di pesci.
Vittorio
e Mon Amì erano
altri due pescatori, che seduti, dicevano la loro su come il giorno dopo dovessero
essere “calate” le reti e sui posti più pescosi della costa.
I
quattro amici apparivano ai miei occhi come maghi che pronunciavano formule
magiche proprio quando descrivevano le tane e le insenature tra gli scogli.
Usavano
dei nomi per me misteriosi: “ GARAMM”.
In
seguito, ho capito che i pescatori, con questo termine, si riferivano alle
grotte sottomarine, ritenute più pescose e dove si nascondevano le prede più
pregiate.
Mettevano, poi a punto strategie di attacco
per attirare i poveri pesci nelle reti.
Ascoltavo
tutto con attenzione, seguivo i gesti delle dita di “Picareddu”
che continuava ad intrecciare il filo della rete, ad ogni movimento i muscoli
delle braccia diventavano più possenti.
Ero
poi, impressionata dagli occhi avidi e ottimisti degli altri che gesticolavano
e sembrava che officiassero chissà quale rito.
Io
piccola e molesta ospite, mentre con un orecchio ero attenta ai racconti e alla
descrizione delle trappole da tendere alle bestioline che sembravano dei nemici
da abbattere, mettevo le mani dappertutto e papà, con pazienza, mi pregava di
non toccare nulla, ma gli altri non ci facevano caso.
Tutto proseguiva fino all’imbrunire.
Mi
divertivo a trascorrere i pomeriggi con papà, mi rivedo con lui quando dovevamo
andare al porto, non accadeva spesso, ma se lui mi diceva:
«oj jamu a nu porto,
arrivano j paranz, videmu chi
anu piscatu oj».
Saltavo come una molla, pronta per partire.
Per giungere
al porto attraversavamo un sentiero in un bosco di alti pini marittimi e di
cespugli di ginestre, di mirti e di rosmarino. Il loro profumo acre misto al
sale ci accompagnava fino al molo.
Papà
mi prendeva per mano e insieme giù verso il porto, anche se il tempo non
prometteva bene, andavamo lo stesso, tanto che un pomeriggio di primavera,
proprio mentre eravamo sul sentiero, a metà strada il cielo si fece di nuvole
scure gonfie d'acqua e minacciose, iniziò a piovere goccioloni, che cadevano
tra i rami dei pini che a fatica facevano da ombrelli.
All'improvviso l'odore di resina si faceva più
forte, intanto noi due giù a correre, ci piaceva sentire le gocce di pioggia
bagnare il nostro viso. A poco a poco le nuvole in cielo svanivano e tutto
tornava tranquillo nell'aria.
Lo
ricordo come un momento di grande libertà,
Arrivati
al porto papà salutava l'altro gruppo di amici pescatori, scambiata qualche
battuta, ci avviavamo dall'altra parte del molo, dove erano attraccate le
paranze, arrivate proprio in quel momento.
Fisso
ancora la spiaggia, rivedo me bambina catturata dai suoi occhi azzurri, vivaci
e profondi, come due lenti brillanti, che sembrava riflettessero i tempi andati
in modo chiaro e nitido.
Mi
incantavo, perché lui aveva la capacità di raccontare con gli occhi. Ero
affascinata dai suoi racconti non verbali.
Questi
momenti ci hanno unito anche nel futuro e hanno creato un legame fortissimo,
che non si può definire il rapporto tra padre e figlia, ma un’intesa
cameratesca. Capitava che mi fissasse e ci capivamo subito, faceva così come un
bambino quando pensa ad una marachella e cerca un alleato.
Ritorno
ancora una volta alla realtà, questa mattina il mare è calmo, non c’è vento, si
vedono bene, tra l’azzurro e il blu del mare le macchie più scure: i “GARAMM”,
sorrido e ripenso a lui e associo al mare il mio cuore che sembra avere
anch’esso delle profondità, dove è riposto quello che c’è di più buono in me,
quella parte di me che mi ha lasciato papà.