Città di Maratea

Provincia di Potenza

Piazza Biagio Vitolo  1 – 85046 Maratea (Pz)

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Codice Fiscale 00144100765

 

 

 

RELAZIONE SINTETICA A DIMOSTRAZIONE DEL  VALORE MONDIALE DEL SITO ,

CORREDATO DALLA BIBLIOGRAFIA ATTESTANTE L’ATTENZIONE DA PARTE DI STUDIOSI A LIVELLO INTERNAZIONALE 

Le caratteristiche peculiari, che fanno di Maratea un ”bene di eccezionale valore”  identificano la stessa in quel “paesaggio culturale”, che altro non è se non il  prodotto dell’azione millenaria di fattori naturali ed umani e della loro interrelazione.

Vedendo Maratea, infatti, ben si comprende Lewis Munford quando definisce “gli insediamenti umani sul territorio la più grande opera d’arte insieme al linguaggio, (essendo il territorio) teatro di azioni sociali e simbolo estetico di una collettività, espressione e matrice di cultura” (1) .

Se dell’interrelazione uomo-ambiente esiste  autorevole letteratura, dal Trattato PseudoippocrateoSulle aree,  le  acque  e i luoghi” e dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, all’Idealismo e  in particolare  allo Schelling ed al  Neoidealismo e in specie al Croce, (v. “Relazione al Senato del Regno” del 25 settembre 1920), fino alla linguistica estetica da Antistene a Wittgenstein ed alla geografia politica,  a partire dal Gribaudi, qui la mirabile osmosi tra realtà  naturali e presenze umane è ovunque significata in quello stesso “adspectus urbis”, che la Roma repubblicana seppe per prima nel mondo tutelare con la legge delle XII Tavole (451-50 a.C.). Qui il paesaggio, nel suo linguaggio visivo, racconta e significa, nell’enfasi di una natura più volte definita” unica” e “superba”, e nella struttura dei suoi segni, che non possono non rinviare a “idee figurate”,  non solo le fatiche e i giorni, ma, soprattutto, le aspirazioni e le tensioni, le attitudini e le vocazioni, il logos e la poiesis di quanti, nei secoli, hanno avuto la ventura di abitarla. Infatti, la bellezza  naturale è la stessa fonte dell’espressione spirituale di una identità unica e irripetibile, esito appunto di quello storico processo di relazioni e intrecci tra lo “slancio vitale”  della natura e la creatività della lingua e della mano, che si consegna al sigillo dello stupore.

Che, se diverso è l’effetto che produce la vista di Maratea a chi viene dai paesi montani limitrofi,  da quello che  coglie chi viene  dal Golfo di Policastro, in entrambi i casi è solo lo stupore che fa da padrone. Stupore da cui non hanno potuto o saputo restare immuni, nel visitarla, quegli  innumerevoli scrittori,  poeti,  musici, artisti, giornalisti,  cineasti e  fotografi (2) , che hanno dato voce e forma, secondo il proprio linguaggio, al  senso profondo dell’incanto, commisto al senso eloquente della storia;  stupore sempre generosamente gratificato dallo spettacolo del mare col suo colore, la sua trasparenza e la sua varietà luminosa; dalla costa, alta e superba al nord, bassa e smerlettata al sud; dalle cento e più grotte, ricche di stalattiti e stalagmiti, come quella di Marina, di ossa di animali predatori e predati, come la grotta “Lina”, di resti del Paleolitico, di  industria litica e di faune pleistoceniche, come le grotte di Fiumicello o di figure antropomorfe, come la grotta dei Monacelli; dalla ubertosa vegetazione di ville e parchi, orti e giardini; dall’abbondanze delle acque celebrata nella lunga “Via dei Mulini” e  dalle fontane persino monumentali, come la “Dal Verme”, di “Ciurtiano” (loci hortulani), la “Peschiera” , la “Fontana Vecchia” e la “Fontana della Sirena”, o ancora, delle baie e delle spiagge, bianche e nere e delle montagne verdi di ulivo, e  carrubo, querce e pini, agavi e fichidindia, che si precipitano in mare  e che tanto ebbero ad impressionare Fernand Braudel, come racconta Folco Quilici, nonché dalle rarità della flora, come la primula di Punta Caina e l’orchidea “ Maratea” e della fauna, come l’airone cenerino e il drago di Santo Janni. Ma se tale spettacolo è la ragione profonda di una così copiosa produzione estetico-letteraria, ciò lo è in quanto rivela le peculiarità di siffatto paesaggio proprio in una natura,  eccezionalmente bella che ha il  respiro dell’ anima della sua gente. E a dimostrazione par qui sufficiente dare voce ad almeno qualcuno di loro, come l’Algranati, che per l’UTET scrive, nel 1929:  Maratea  “sorta probabilmente sul luogo dell’antica Blanda… declinando lungo le rocce fino ad un piccolo Porto, alza un castello sul colle, poi si affonda e quasi sparisce tra le pareti di una gola, mentre ciuffi di ulivi le incoronano il florido capo e ricompare più giù alla spiaggia”, o come Indro Montanelli che, nel 1957, sul “Corriere della Sera”, scrive: “Forse in Italia non c’è paesaggio o panorama più superbi. Immaginate decine di chilometri di scogliera frastagliata di grotte, faraglioni e morbide spiagge davanti al più spettacoloso dei mari, ora spalancato e aperto, ora chiuso in piccole rade, piccole come darsene.

La separa da una catena dolomitica tutta rocce color carnicino punteggiata di vecchi borghi, castelli diruti e antiche torri… un declivio boscoso rotto da fiumiciattoli e torrenti e sepolto sotto le fronde dei lecci e dei castagni”, o  come Cesare Pavese, che negli stessi anni, con Bianca Garufi, in “Fuoco Grande” scrive: ”Maratea è un paese meraviglioso… magnifico… non c’è nessun altro luogo che sia valido in me come questo che vedi. I colori soprattutto sono colori primordiali”. E ancora come Bruno Zevi, che nel 1985  rivisita Maratea per un importante congresso internazionale di architettura, con l’inglese Ralph Erskine, il francese Pierre Vago e l’argentino Korge Glusverg e scrive sull’Espresso: “Cuneo della civiltà lucana sul Tirreno, l’assetto di Maratea è stato definito un miracolo. Preserva incontaminati 32 chilometri di costa… domina il panorama l’altura… ove spiccava l’antico castello (creando una) situazione idillica…” o, infine, come Lidia Ravera, che nel 2001 consegna alla rivista “Bell’Italia” il fascino di tale visione, da cui resta “folgorata”  come in una crisi mistica o un colpo di fulmine” e racconta: “Ero stata a Maratea da bambina, tornarci e ritrovarla incantevole come la ricordavo è stata un’incredibile sorpresa. Ancora bellissima, rispettata da ruspe e cemento in un  paese altrove irrimediabilmente rovinato. Una cosa davvero rara”,  mentre Paolo Rubino, nella stessa rivista, nota che a Maratea “tornano gli scrittori, gli artisti, il mondo della cultura…( restando ) un rifugio di chi cerca un’atmosfera che incanta senza artefizi”, fino ad oggi in cui Bepi Castellaneta e Gino Martina la definiscono “ bomboniera a picco sul mare “ restando incantati innanzi a “un panorama mozzafiato” ( Corriere della sera - supplemento- agosto 2015 ), facendo eco  Giulia Caneva che, nel 2009, nel volume “flora, vegetazione e tradizioni etnobotaniche a Maratea” aveva scritto: “Sicuramente e con estrema suggestione Maratea entra nell’immaginario dei luogo dove la bellezza si coniuga con le valenze della natura” ma che esprime anche”connotati di una grande rilevanza su fronti che non solo sono di tipo estetico, ma anche naturalistico, storico e quindi turistico per la presenza di peculiarità che ne sottolineano valori fuori dall’ordinario”(3) . E a riprova della interrelazione tra fattori naturali e umani sarebbe sufficiente rifarsi già alla “Descrizione delle province di Basilicata”, ordinata da Carlo di Borbone, nel 1735, al “Dizionario Geografico-istorico” del  Sacco, del 1796 e al “Dizionario Geografico ragionato” del Giustiniani,  del 1802, in cui la bellezza della natura appare la causa stessa dell’amore dei cittadini per le lettere e le arti, ma anche della capacità di valorizzare la natura stessa, raggiungendo l’eccellenza della produzione dei beni da essa derivati, dalla pesca, che rinvia al tanto apprezzato “garum” (tuttora in uso in ricorrenza della festa di San Biagio), alla pastorizia, con i suoi speciali formaggi e la lavorazione della lana, all’agricoltura, che porta addirittura a ricordare i “Marateotica vina”,  di cui parla Stazio, ma anche agli ulivi, onde le ricche botteghe dei “Casaoglimarateoti a Napoli, fino al corretto uso delle acque per i tanti mulini e trappeti, degli  orti e giardini e delle piante e delle erbe, a partire dal finocchio selvatico (che le dà il nome) e che diventano essenze di liquori e della gastronomia locale,  ed alla produzione della seta , della canapa, del lino, dei cesti e delle corde vegetali, cui si aggiunge l’artigianato del legno, del cuoio  e dei metalli, per cui i marateoti vengono paragonati in quella Relazione a re Carlo, agli “antichi amalfitani”.  E ciò per continuare con quel  regio funzionario Ausonio Franzoni, che,  incaricato di presentare al Governo Zanardelli, nel 1902, una relazione  sulla emigrazione in terre di Basilicata, incantato dalla vista di Maratea, così scrive: “Attraverso una fitta foresta di altissimi castagni, una magnifica strada carrozzabile conduce fino al sommo del giogo da cui si domina da un lato il panorama delle alte cime del Pollino, del Sirino e della Spina e dall’altro l’ampia distesa del Golfo di Policastro. A destra la storica punta di Sapri, a sinistra le montagne degradanti dell’Appennino calabro. Lasciato il bosco la via scende a Maratea… un borgo di 5600 abitanti, adagiato sulla china della montagna e legato da una strada tortuosa ma comoda, alla spiaggia”. Ma che, non potendo non sentirsi  interessato a cogliere in quel paesaggio gli effetti dell’azione uomo-ambiente,  passa subito dalla descrizione della natura ad interpretazioni di ordine antropologico, osservando: “Per l’aspetto delle case e dei negozi e per il vestire degli abitanti e per lo stato delle vie lasciate pulite si distingue dagli altri paesi visitati e si presta ad un lusinghiero giudizio, è infatti, fra gli altri il più prospero (condizione che)  ha tratto dalla industriosità  e dallo spirito di iniziativa dei suoi abitanti… E’ questa stessa intelligente attività che indusse la popolazione di Maratea a rendere produttivo il suolo…”, per giungere ai nostri tempi, in cui Giancarlo Marchesini, che in uno dei suoi tanti libri dedicati a questa terra scrive: “Deve esserci nell’aria di Maratea una particolare endorfina- possiamo ribattezzarla  marateina- capace di  galvanizzare energie sopite, di liberare facoltà inibite”e Lucia Bellotti che, nella rivista That’S Italia, 2015, indugia sul  rapporto proficuamente produttivo ” tra  una natura da cartolina e la gente dal cuore verace”.

Non vi è dubbio che l’abitare in uno spazio di eccezionale bellezza, come questo, avrà pure comportato e comporta una particolare tensione a quel bello, che qui non può non mostrare la sua ascendenza metafisica, alimentando quella significativa creatività, che si è espressa prevalentemente nella religiosità e nell’ arte; una spiritualità interprete e  testimone  della sacralità del Bello e della bellezza del Sacro.

Bellezza e sacralità fanno, infatti, di questa terra “il luogo dello spirito”.

Proprio riflettendo sugli esiti di tale interrelazione non si può qui non pensare allo Schiller  quando  parla  della  bellezza  quale  “forma  vivente”, che  guida  l’uomo sensibile alla forma e al pensiero e l’uomo spirituale a riconoscersi in quella sensibilità ed in quell’armonia che conduce alla libertà.(4) Sta di fatto che la considerazione della peculiarità di siffatto paesaggio culturale rileva come la gente di questo luogo, in quella semplicità, che il Vico chiama “sapienza poetica”, ha compreso che la cifra della bellezza è il mistero, senza la cui esperienza- come ebbe a dire Einstein- si resta ancor adulto nella culla, con gli occhi offuscati (5) , tant’è che uno studioso, quale Gabriele De Rosa, ha potuto vedere nella spiritualità di questo popolo un fiume di metafisica, che corre sul letto dei secoli.

E’ perciò che siffatta spiritualità si è espressa anzitutto e soprattutto nella religiosità della sua gente.

Maratea pagana celebra in Minerva e nel tempio a lei dedicato, la Sapienza, con le più alte virtù della polis, ma eleva anche sacelli  a Venere, la dea dell’amore e a Demetra,  la tutrice della natura (6) . 

Maratea cristiana ha il suo  primo luogo di culto nelle Grotte, tra cui quella dell’Angelo ( o San Michele Arcangelo) e di “ Iancu” ( il bianco eremita ), ove sono ben visibili i segni della più antica frequentazione. Le stesse saranno, appena più tardi, ricoveri di anacoreti. (7)

Dopo l’Editto di Costantino (313 d.C.) la prima comunità cristiana, non più catacombale, si insedia a Castrocucco, come provano gli scavi archeologici e, in particolare, la bella lucerna col simbolo del Crismon. D’altra parte, nello stesso sito, insiste Blanda  e se tale città diviene una delle prime sedi vescovili della Chiesa, par ragionevole pensare ad una rilevante presenza cristiana in questa area. (8)

Blanda scompare nell’VIII secolo d.C. e  i suoi abitanti, scampati ad una tremenda calamità naturale o a un micidiale assalto saraceno, riparano – come concordano gli storici -  sulla parte alta del territorio marateota, la vetta del monte Minerva, ove già da qualche secolo i monaci venuti dall’Oriente e chiamati, sia pure impropriamente Basiliani, hanno creato  laure,  eremi, cenobi e chiese, quali quelle di San Basilio (cui si ispira la loro Regola e che sarà la prima parrocchia),  di San Nicola di Mira, dei Santi Quaranta Martiri e di Santa Maria Maggiore, o della Theotokos, nonché quella di Santa Maria della Visitazione, che, nel 732, secondo la tradizione, al tempo della iconoclastia di Leone III Isaurico, accoglie l’Urna contenente le Ossa di San Biagio,vescovo medico e martire di Sebaste, approdata sull’isolotto di Santo Janni ( su cui insistono, oltre un’ara pagana e un impianto per la produzione del garum, una chiesa basiliana dedicata appunto a Santo Ianni ed una piccola necropoli) e che, da allora, si chiamerà di “San Biase”, arricchendosi nei secoli di opere significative, quali l’affresco della Madonna del Melograno, la regia Cappella, dono di Filippo IV di Spagna, sculture lignee e d’argento come il simulacro del Santo firmato De Biase, tele, arredi e paramenti di alto valore storico-artistico, divenendo méta di pellegrinaggio per tutto il golfo di Policastro ed il vasto retroterra.(9)

I monaci orientali, compresi quello che hanno accompagnato l’Urna del Santo, costituiranno la celebre Eparchia del  Mercurion(10) , presto definita “la nuova Tebaide”, di cui restano le laure di San Paolo, di San Giovanni e della Madonna delle Grazie, gli eremi e le chiese della Madonna ad Nives o degli Ulivi e della Madonna della Pietà o del Soccorso, tutti impreziositi da affreschi.

Dal secolo IX alla metà del secolo X Sant’Elia di Enna, il suo discepolo,  detto lo Spelota, i Santi Cristoforo, Saba e Macario e lo stesso San Nilo ed il suo biografo San Bartolomeo si fermano in questo luogo, come risulta dalla  Bios di San Nilo e da quella di Sant’Elia lo Spelota, in cui, tra l’altro, si legge di un “ Giorgio monaco il quale da principio abitò nei precipizi di Marathone”. L’evoluzione del costume dei monaci dalla vita di anacoreta a quella di cenobita è pur essa testimoniata  dal passaggio dalla frequentazione criptica delle grotte all’apertura dei cenobi.

Una prima eredità culturale discende proprio dalla tipica spiritualità orientale, che fonde la comunità nella comunione: ”koinonia”, mentre coniuga la cristologia con la pneumatologia,  nel suo precipuo carattere escatologico:”eschaton”.(11)  Ma se tale spiritualità  induce a vivere oltre la storia, sì da consigliare una lettura della bellezza della natura vissuta che quei monaci profeti in chiave di teologia estetica, alla maniera di un Florenskij,(12)   la lettura dello stesso paesaggio, proprio così come  quei monaci  l’hanno consegnato nella particolare struttura dei segni, rivela l’impegno operativo esplicato in una coltivazione sapiente non solo delle arti e dei mestieri, ma anche dell’Arte e delle Lettere, che fa ancor meglio comprendere  la mirabile interazione, appunto, tra gli elementi ed i fattori naturali e quelli propriamente umani. 

Intanto dall’alto del monte Minerva, sempre più insufficiente ad accogliere un popolo demograficamente cresciuto, inizia il lento trasferimento delle famiglie “castellane”, che lasciano la città turrita, ma troppo esposta alle aggressioni barbaresche, in località più sicura e più produttiva, ai piè dello stesso monte.

Siamo attorno al Mille ed il primo nucleo di quella che sarà l’attuale Maratea e che si chiamerà “Capo Casale”, si svolgerà, degradando, dalla Chiesa di San Vito, che è succursale della citata chiesa parrocchiale di San Basilio,  formando un secondo nucleo, che si chiamerà “Casaletto”, costituendo entrambi la nuova entità civile, che prenderà in nome di “ Borgo”, così distinguendosi dalla cittadella fortificata, che si chiamerà “ Castello”. Comunque, Alfano I, Vescovo di Salerno, in una sua bolla del 1079, parla semplicemente di Maratea, senza l’aggettivo “Superiore” e “Inferiore”.

Bisogna giungere al Trecento per registrare la presenza di due nuove chiese nei due casali del Borgo: Santa Maria, che, rinvenuta sotto la chiesa Madre, conserva solo lacerti di affresco e San Pietro, sotto la chiesa della Immacolata, che  ha perduto l’affresco della Madre di Dio, ma conserva quello raffigurante San Pietro, San Paolo e gli altri Apostoli, opera di un grande maestro, che ha visto Giotto, si esprime in gotico, senza dimenticare Bisanzio e forse viene dalla Provenza.  

Il Quattrocento segna il tempo della nuova parrocchia e del nuovo Comune nel Borgo: è il 1434 e la chiesa in stile francescano, con suggestioni gotiche, viene dedicata a Santa Maria Maggiore, come quella già esistente in Maratea Castello e da cui trarrà una importante scultura della Vergine Assunta o degli Angeli, in alabastro.   La stessa ingloberà una delle tre torri della città, di proprietà Santoro De Vescis,  arricchendosi di significative opere d’arte, tra cui  un pregevole coro ligneo.

Nel corso del Quattrocento si costruiscono, anche, le chiese di Sant’Anna, del Rosario, del Calvario e  di Santa Lucia. La chiesa di Sant’Anna, la più antica del secondo rione, conserva opere di particolare pregio, tra cui statue lignee, tele e un organo settecentesco. La chiesa del Rosario è annessa al Monastero dei  Padri Domenicani, come si desume dalla stessa dedicazione, dalla bella tavola della Madonna del Rosario e dall’ importante tela del Miracolo di Soriano.

La chiesa del Calvario conserva all’interno affreschi pregevoli di G. Palumbo, datati al 1443, mentre l’affresco esterno rinvia a Luce da Eboli.

La chiesa di Santa Lucia conserva un affresco parimenti interessante dello stesso Palumbo.

Dello stesso periodo sono la Cappella della “ Cona” ( Icona ) di Via Pendinata,  con l’affresco della Madonna col Bambino in trono, di un artista molto valido, che può essere il già citato Luce da Eboli o che aderisce ai modelli dello stesso e la cappella di San Francesco dei Poverelli, con un affresco sempre della Madonna in trono con il Bambino,  San Biagio e San Francesco.

E’ collocabile tra il Quattrocento ed il Cinquecento la presenza benedettina che sostituisce gradualmente quella basiliana: la Grancia Cistercense di San Bernardo di Chiaravalle, che è ancor oggi presente con la cappella e che dall’Archivio Apostolico Vaticano (Segret. dei Brevi 26 settembre 1584) si sa che faceva parte di un ospizio religioso; la Grancia, ora in ruderi, dell’omonima località della frazione Massa e l’Abbazia  di Santa Maria di Loreto, in località Sant’Elia, luogo in cui restano tre cappelle ora dette dei Cappuccini, con tre affreschi della Madonna col Bambino in trono tra Angeli e Santi, probabilmente dipendente dal Magnus Abbas Ordinis Cavensis, come si desume dal fatto che l’ Arciprete di Maratea ( per ultimo don Giuseppe D’Alitto) era investito della carica di vicario appunto dell’Abate di Cava dei Tirreni. 

Appartiene agli inizi del Cinquecento la Chiesa dell’Annunziata, ricca di opere di pregio tra cui la bellissima tavola dell’Annunziata di Simone da Firenze ( 1520-1525) e i leoni in pietra, di cui uno firmato da Francesco da Sicignano nel 1513 (e l’altro ancora più antico).

Nella prima metà del Cinquecento i Frati francescani, in particolare i Minori della Osservanza occupano il  Monastero già dei Domenicani, con la  annessa chiesa del Rosario, che ingrandiranno e arricchiranno con decoro barocco ed opere importanti sì da farne una sorta di pinacoteca.

Nel 1615 i Frati Cappuccini si insediano nel Convento, annesso alla Chiesa di Sant’Antonio, che, pur caratterizzandosi per la sua semplicità, vanta sull’altare in marmo un importante polittico della prima metà del ‘600, con la Madonna in gloria tra Sant’Antonio di Padova e Sant’Antonio Abate ed altri Santi.

Nel 1620, l’Arciconfraternita di Maria Santissima Addolorata, costituitasi presso la Chiesa di Sant’Anna, costruisce una Chiesa tutta propria, arricchendola di una pregevole copia del Martirio di San Biagio di Giacinto Brandi, conservata nella Chiesa  di San Biagio e San Carlo ai Catenari di Roma,  di una pregevole statua settecentesca della Madonna e di una bella Deposizione firmata da Angelo Brando.

Dello stesso secolo è la Chiesa barocca di San Francesco di Paola, annessa al Convento dei Frati Minimi, ricca di opere d’arte, tra cui i leoni in pietra, le sculture lignee e i dipinti di buona fattura.

In questo stesso periodo Maratea, ove sono attivi, tra altri, come ricordato, Simone da Firenze, Giovanni Palumbo e Francesco da Sicignano, dà i natali al pittore manierista Filippo Vitale, che firma le sue numerose e pregevoli opere  con l’aggiunta “ da Maratea”.   

E’ sempre del Seicento la  Chiesa della Immacolata Concezione,ove si costituisce la omonima Confraternita (1668), che si eleva sulla preesistente Chiesa di San Pietro e che si arricchirà nel tempo di opere d’arte quali tele, sculture ed arredi ,dono, in gran parte, del Cardinale Casimiro Gennari (1839-1914).

Nel700 viene istituito il Convento femminile delle suore “Visitandine” (poi Salesiane), che si distingueranno per la cura pedagogica verso la gioventù non solo marateota, tanto apprezzata si da essere esclusa, nel decennio francese del successivo secolo, dalla soppressione. Nel 1758 viene elevata la colonna in onore di San Biagio e trent’anni dopo viene eretta la stele in onore della Madonna Addolorata, mentre si rivisitano in stile barocco molte chiese tra cui quelle di San Biagio e  di Santa Maria Maggiore.

Sono dell’800 il Convento delle “Donne Monache” e le Chiese di Santa Caterina, Massa, Brefaro, Porto, Fiumicello, Castrocucco, Marina, Cersuta e Acquafredda,in luogo delle preesistenti piccole cappelle o laure.

Tra l’800 e il900 Maratea si dota di un efficiente sistema di istituti di istruzione e di cultura, quali un Ginnasio e una Biblioteca pubblica, nonché di un Convitto maschile e di uno femminile particolarmente apprezzati per la formazione che assicurano.

Nel 1907 le Suore di Nostra Signora al Monte Calvario si insediano nel Monastero, annesso alla Chiesa del Rosario, ove istituiscono un importante Educandato, con collegio, che ospita ragazze provenienti dal golfo di Policastro e dal vasto retroterra lucano, riattivando una istituzione educativa del 1730, eretta in Ente Morale (De Pino-Matrone Iannini) nel 1867.

Nello stesso secolo si costruiscono le cinque cappelle cimiteriali, le cappelle della Madonna di Lourdes e della Madonna di Fatima, l’Altare della Patria, la Croce monumentale e il monumento al Cristo Redentore.

Un patrimonio religioso dunque, certamente straordinario in relazione alla dimensione del sito (una sessantina di Chiese, 5 Conventi ed Edicole sull’intero territorio), che si integra con un patrimonio immateriale, fatto di tradizioni, usi e costumi, che danno vita ad eventi, che si ripetono da secoli,  come le oltre venti celebrazioni festive, con altrettante processioni; alle Confraternite laico-religiose  all’associazionismo cattolico e a non poche iniziative umanitarie e ospedaliere (13) che testimoniano una radicata spiritualità lirico-profetica, come quella basiliana, colta e operativa, come quella benedettina ed evangelico-pauperistica, come quella francescana, una spiritualità che ha ispirato gli Artisti,  cui Maratea ha dato i natali (Vitale, Diodato, Brando, Schettino, Di Puglia, Di Dio Castagna….) o che hanno qui operato (Simone da Firenze  Palumbo, Luce da Eboli, Galtieri,Cusati, Colucci, Trombadore e allievi del Solimena e di Luca Giordano ed altri), cui si associano i non pochi  italiani e stranieri tuttora attivi, che quando non si esprimono nell’arte sacra, sanno sempre  dimostrare che ” il valore dell’arte dipende – come afferma Tolstoj dalla qualità morale dell’emozione trasmessa”.(14).

Ed è la stessa spiritualità che, straripando dal sacro, ha innervato la cultura laica, dando ragione a iniziative civili di  un popolo, che non conosce l’accattonaggio, il crimine e la violenza, grazie anche a quella “ indole mite e pacifica che non scende agli eccessi di furie”, come ebbe già a riconoscere il re Filippo III di Spagna nel concedere ai cittadini di Maratea il permesso di porto di armi ed ha dato, nel contempo, un peculiare carattere di semplicità ed eleganza agli edifici storici tra cui i tanti palazzi e ville e lo splendido teatro, nonché a quell’architettura “spontanea” che fa pittoreschi gli antichi borghi disseminati sul suo territorio.

Ma la storia di Maratea sarebbe monca se, accanto alle peculiarità testè indicate, si tacesse di quella vocazione alla comunicazione e al dialogo, che da sempre la fa referente di interessanti relazioni locali, nazionali e internazionali; una vocazione che ha certamente un cuore antico, come avrebbe detto Carlo Levi e come prova l’Archeologia, che ci ha restituito reperti che testimoniano  rapporti dalle Eolie alla Ionia, alla Tuscia ed a Roma. Peraltro, studi recenti a cura dellUniversità di Messina, muovendo da ricerche su Castrocucco e la foce del fiume Noce fino al palecastro di Blanda ( punta la Secca e punta della Matrella) e sull’isolotto di Santo Janni, hanno evidenziato in tale sito dall’età repubblicana fino al VI secolo d.C. impianti non solo per la salagione del pesce e della salsa del garum ma anche per la produzione di anfore deputate al trasporto, che rinviano a quel Postumus Curtius, assurto al consolato con Cesare e presente nell’epistolario di Cicerone, la cui sepoltura potrebbe identificarsi nel mausoleo a tumulo, a ridosso della foce del fiume suddetto.  Siffatta vocazione che crea rapporti certamente commerciali, ma anche culturali, attestati dalla produzione anforica italica, iberica, africana e asiatica, sarà nei secoli successivi, fino alla metà dell’800, la ragione del successo di una attività produttiva agricolo-artigianale, che ha fatto definire i marateoti cittadini  geniali ed operosi spiegando  anche il piuttosto elevato livello socioculturale degli stessi, come rilevato nelle anzidette Relazioni  ufficiali.

E trattasi sempre e comunque di una vocazione che appartiene soprattutto a quella spiritualità, che si esprime nella religione e nell’arte, a partire dal culto verso San Biagio, che per Maratea non è solo il taumaturgo, cui ci si rivolge in caso di necessità materiale e morale, ma è il Patrono indiscusso, che, addirittura, in un certo tempo dell’anno è il capo della Municipalità, cui il Sindaco pro tempore, secondo un rituale che si svolge da secoli, consegna le chiavi della città, sicché la storia di questa terra si identifica per buona parte in quella stessa del Santo. Or è che a un culto così ancestrale urge diffusione e proselitismo, che si innerva di relazioni, anche di solidarietà, con quelle comunità, che ne condividono il senso e la storia. Ne conseguono gli innumerevoli “gemellaggi” con città italiane e straniere,  ma anche il trasferimento del rito in paesi lontani, come il Venezuela, la Colombia, il Brasile e l’Argentina. Ma dire di San Biagio significa soprattutto dire dell’Armenia da cui proviene: una nazione segnata dalla  fedeltà cristiana e dal martirio. Peraltro, gente armena avrebbe accompagnato l’urna di San Biagio, come si legge in una epigrafe nel Santuario Basilica Pontificia. Ma  Maratea intrattiene  anche rapporti culturali e religiosi  con altri paesi ortodossi, dalla Grecia alla Russia,(15) memore della matrice basiliana dell’Eparchia del Mercurion ed in particolare della cultura dei monaci Melkiti, da cui  apprese il senso del pellegrinaggio, che promette la gioia dell’incontro: “ Ipapante”. Una vocazione ed una attitudine,  che forse possono in sintesi essere ben significate  da un episodio storico, quale quello di un piccolo prete, che in questa piccola città, riuscì a fondare ed a diffondere nell’intero orbe cattolico, con cui intrattenne  lunghi e proficui rapporti, il primo e più importante organo di informazione canonica: “ Il Monitore Ecclesiastico”.  Era il 1876 e quel giovane sacerdote,  Casimiro Gennari, fu poi quel Cardinale di S.R:C, che seppe distinguersi per dottrina e pietà.

E’perciò che Maratea, candidandosi alla Lista del Patrimonio Mondiale Unesco, si impegna, altresì, a valorizzare questa sua precipua vocazione, candidandosi, anche, quale centro propulsore e curatore di rapporti di comunicazione e dialogo, ossia di quella cultura che è e resta insurrogabile garanzia di pace.  

A conclusione di questa sintetica relazione, afferente alle peculiarità del sito, piace ricordare quanto è stato osservato da non pochi fruitori della sua bellezza, ovvero, che a Maratea vi è un posto, il bosco dei Carpini,  ove il vento quando soffia sussurra una sinfonia, che par venga da patria lontana e v’è altro luogo,  detto il “Litomuseum”, ove gli elementi empedoclei e in specie l’acqua e l’aria – da millenni – scolpiscono nella pietra figure antropomorfe, che celebrano l’epopea degli dei e  degli  eroi e vi sono località, come quella di Santavenere, che cristianizza la dea dell’amore o come Filocaio (da Filokalòs) e Macarro (da Macariòs), che forse vogliono semplicemente dire che qui :“ l’uomo che ama il Bello, è beato “ (16) .

E se ha ragione Hermann Hesse, quando, proprio mirando il paesaggio afferma :“ Tutto il visibile è espressione, tutta la natura è immagine, è linguaggio, è scrittura, con un suo colore”(17), vero è che il colore che fa  culturare” il paesaggio di Maratea è quello proprio del Bello, che, come è parso a Platone, è l’unica Idea visibile, nel mondo delle idee, che per loro natura sono invisibili(18) . Qui, infatti, è il Bello che si fa visibile nell’immagine della  natura che incanta, nel linguaggio dell’arte, che crea, nella scrittura della storia  di un popolo, che ha ansia di Dio.

 

 

(1)     v. elenco allegato

(2)     Lewis Munford “ La cultura delle città”, 1954

(3)     v. elenco Emeroteca allegato

(4)     Friedrch  Shiller -  Della grazia e dignità, trattato estetico, 1793

(5)     Alber EinsteinBerliner berichte, 1917

(6)     Angelo Lombardi – Saggio sulla tipografia e sugli avanzi delle antiche città italo-greche, lucane, 1840

(7)     Vera Von Falkenshausen in “La Civiltà rupestre nel mezzogiorno d’Italia,1971

(8)     Fabrizio Mollo – Il Museo di Blanda, 2014

(9)     Pavel A. Florenskij – L’arte….  -  2004

(10)  Delle dodici Confraternite, ne restano in vita tre; tra le associazioni umanitarie si ricordano l’”Istituto di Mutuo Soccorso” ottocentesco, che diede vita alla Banca di Maratea e, per i nostri tempi, l’Avis, la Charitas e la Croce Rossa. E’ noto anche che Maratea ha avuto il primo ospizio al Castello, il secondo fondato nel500 dai Cistercensi, il terzo voluto da Giovanni De Lieto nel 1734, il quarto creato per iniziativa di Antonio Schettino nell’ex Convento dei Minimi agli inizi del’ 900 e il quinto, istituito dallo Stato negli anni ’80.

(11)  Carmine Iannini – Di San Biase  e Maratea   - 1835 Domenico Damiano – Maratea nella storia e nella luce della fede -  1954

(12)  Francesco Russo “ il Mercurion” in Rivista Potenza, 1967

(13)  V. Zizioulos “ Cristologia, pneumatologia…”

(14)  Anna Grelle Jusco - Arte in Basilicata – 1981

(15)  V. elenco iniziative Relazioni nazionali ed internazionali

(16) Josè Cernicchiaro, , Vincenzo Iacovino Giuseppe Antonello Leone in “Maratea sacra” – 1997

(17) Hermann Hesse “La natura ci parla” – 1998

(18) Platone -  Fedro, Simposio, Ione – (a cura di Giovanni Reale) - 1991 

 

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