Il Cardinal Casimiro Gennari nel suo e oltre il suo tempo

 

I momenti di riflessione sul Gennari, con il coinvolgimento di insigni uomini di chiesa e di cultura, non sono certo mancati nel corso di questo primo secolo dalla morte. E sono stati tutti, a Roma, come a Conversano, a Palmi, come a Maratea, particolarmente interessanti e culturalmente proficui.

E, tuttavia, se una ulteriore riflessione non è un mero esercizio retorico di più o meno paludata liturgia celebrativa, semmai sollecitata da quella ossessione aritmetica delle ricorrenze, contro cui si levava l’avvertimento di quel grande maestro di filologia,che è stato Gianfranco Contini, ma è, piuttosto, l’occasione di più approfondita ricerca, atta a colmare le pur sempre presenti lacune o ad integrare e addirittura modificare interpretazioni e giudizi e per essi la stessa storia e allora promuoverla è un obbligo di cultura certamente cogente.

Ma accanto a siffatto obbligo altro se ne impone e questo non meno rilevante giacché è di ordine civile e morale. Mi riferisco al dovere, appunto, di far memoria del nostro passato e non certo per dare sfogo a quella sorta di nostalgia, che pur ci appartiene – nell’ineludibile rinvio al “De Pulchro” di Plotino -  quanto piuttosto per offrire anzitutto ai giovani riferimenti sicuri ed esempi validi specie in un tempo, come il nostro, in cui i riferimenti si dissolvono in una malintesa globalizzazione, che nella cieca massificazione cancella peculiarità e autonomia e gli esempi si sviliscono nell’assenza di valori e di ideali nell’accattivante volgarità cui indulge l’egemonia delle mode; esempi e riferimenti necessari ed urgenti, si, soprattutto oggi, in cui, come avrebbe detto Platone, l’eccesso della libertà ubriaca le menti e i cuori e conduce alla più assurda tirannide. Ma v’è di più: è necessario riflettere – ed i giovani anzitutto – che la memoria non è solo la facoltà di conservare esperienze passate, quanto la sostanza stessa della nostra identità e che senza memoria il presente non ha senso, il futuro non ha ragione.

E’ perciò che abbiamo promosso ed attuiamo ancora un evento come questo, nel vivo convincimento di far cosa bella e buona, soprattutto perché ha per destinatari, anzi per attori, i giovani.

Ne consegue che l’introduzione a questo incontro – che mi si è voluto affidare  lungi dal porsi quale incipit di un panegirico, che per l’eminenza del personaggio  da ricordare non potrebbe che esser solenne, vuole costituire, piuttosto, la responsabile provocazione ad un’ulteriore riflessione su un Uomo, di cui tanto resta ancora da sapere e far sapere, cercando di individuare nel tempo e nel luogo in cui visse quegli elementi, dati e ragioni che possono concorrere a far meglio conoscere la sua personalità, così complessa e straordinaria sì da dare alla sua vita, per l’eccellenza delle virtù civili e morali praticate, un carattere di eccezionalità ed alla sua complessiva testimonianza umana un significato di esemplarità luminosa.

Muoviamo, dunque, dallo spazio e dal tempo, ovvero da quegli “a priori” da cui - come avverte Kant - non può prescindere la conoscenza. È bene, dunque, riflettere sull’ambiente in cui operò e sul tempo in cui visse, dilatando la microstoria di un luogo e di una esistenza nella macrostoria d’Italia e d’Europa e, viceversa,  muovendo dalla grande storia, ahimè quasi sempre “evenemenziale”, per approdare alla piccola storia, quella locale e persino del quotidiano, che la storia ufficiale sovente sdegnosamente trascura.

Se i fattori formativi dell’uomo – come insegna la migliore pedagogia – sono l’ambiente, la società, la scuola e la famiglia, è doveroso, per meglio conoscere il personaggio, muovere appunto dalla più approfondita conoscenza di tale contesto.

Quale, dunque, l’ambiente, ovvero,  lo scenario per così dire mondiale e locale  del suo tempo?

La sua fu certo un’epoca straordinariamente intensa, contrassegnata soprattutto dalla prevalenza delle idee sui fatti. Quasi sempre la storia risulta determinata dagli incontri e dagli scontri di interessi dinastici o nazionalistici, dall’avidità o dall’avarizia dei reggitori, prima ancora che dei popoli, in cui è rilevante, se pur non esclusiva (come avrebbe invece pensato Marx) la categoria economica.

Questo è, invece, il tempo dei princìpi più che dei principi, delle idee più che delle ideologie, dei valori più che degli interessi, che affonda le radici in quella innovativa corrente di pensiero, che è l’illuminismo e che, nata in Inghilterra (Newton), si diffonde in Germania (Wolf) e si afferma in Francia (Montesquieu, Condorcet, Rousseau), in cui trova la sua teorizzazione ed il suo organo nell’Enciclopedia, i suoi profeti in D’Alambert, Voltaire e Diderot  ed il suo propagandista in Napoleone. Giungerà  in Italia (Beccaria, Romagnosi, Gioia), anche se pur tardo e stemperato. La fede che predica, si sa, è nella ragione che illumina la mente, sgombrandola dalle credenze religiose e dai pregiudizi storici.

E questo è anche il tempo della libertà degli individui e dell’indipendenza dei popoli da cui discendono la solenne Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Rivoluzione dell’America del Nord (1774) e, quindici anni dopo (1789), della Rivoluzione Francese, di cui è figlio Napoleone, il cui astro abbaglierà la fine del secolo dei lumi ed i primi quindici anni di quell’Ottocento, che per l’Italia si identificherà per buona parte nel Risorgimento.

Anche il Regno di Napoli vive una stagione di evoluzione profonda non solo nella politica, ma, anche, nella cultura, nell’arte, nel diritto e nell’economia. È il tempo di Carlo di Borbone, che nel quarto di secolo del suo regno (1734-1759), grazie anche al contributo innovativo di ministri illuminati, quale il Tanucci, avvia un radicale processo di modernizzazione della struttura stessa dello Stato e del sistema produttivo, che caratterizzerà, anche, il primo ventennio di Ferdinando IV e che lascerà segni importanti, quali la prima ferrovia della penisola, la più moderna industria estrattiva e manifatturiera, il più qualificato artigianato del tessile, della ceramica e dell’ebanisteria,  gli scavi di Pompei,  Ercolano, Oplontis e Paestum, il Teatro San Carlo, l’Ospizio dei poveri, la Reggia di Caserta, etc. opere,queste, affidate ad artisti che saranno celebri quali il Fuga ed il Vanvitelli.

Ed anche la nostra Maratea assume in tal contesto e come “Città libera”, ovvero mai infeudata (quale è stata ininterrottamente da Carlo d’Angiò), un particolare rilievo.

Val la pena di rileggere quel documento fondamentale, voluto appunto da Carlo di Borbone, che è la “Descrizione delle Province di Basilicata per ordine del Re”, di cui fu incaricato da Bernardo Tanucci, il 19 aprile 1735, Rodrigo M. Gaudioso, che, per Maratea, si avvalse della collaborazione del sindaco Clemente M. Lombardi e dei signori Nicola Taranto e Alessandro di Luca. Dalla stessa si apprende che Maratea era Capo Dipartimento, ovvero coordinava una trentina di Comuni tra cui Lauria e Lagonegro e che era culturalmente elevata, non avendo analfabeti tra gli amministratori e registrando “l’inclinazione della gente alle lettere”; produceva oli, ortaggi, vini, grano e formaggi; aveva un porto attivo, con pesca abbondante ed un traffico consistente, costituendo il mare pressoché l’unica via di comunicazione  e contava  sul suo territorio  monumenti importanti come il Castello e il Tempio di San Biagio,  numerose Chiese, tre Conventi di frati e uno di suore.

Dal “Dizionario geografico - istorico del Regno di Napoli” del Sacco (1796) e dal “Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli” del Giustiniani (1802), il quadro della realtà marateota nel ‘700 si arricchisce di ulteriori elementi e così sappiamo dell’intensa vita culturale grazie, soprattutto alla presenza dei frati Minori, Cappuccini e Minimi e delle religiose Visitantine, del risveglio artistico, che crea nuove chiese, rivisitando di tardo barocco le tante già esistenti; dei traffici e dei negozi, con fondaci anche a Napoli (i “casadogli”) donde i marateoti vengono paragonati agli antichi amalfitani; della febbrile attività artigianale nella lavorazione della seta, nella concia delle pelli, nella produzione di calze e indumenti in lino, lana, canapa e cotone; nella lavorazione del rame e dell’argento, con emigrazione appunto di calderari ed argentieri in Spagna, Inghilterra, Belgio, Francia e Germania; nella produzione delle corde vegetali e nell’agricoltura, ove si distinguono le donne. Sappiamo, altresì, dell’esistenza di un Ospedale, fondato nel 1734, soprattutto per i forestieri, dal benefattore Giovanni De Lieto; della  presenza di ben sette Confraternite laico - religiose, praticanti tra loro il mutuo soccorso e di un numeroso clero, sostenuto dal sistema della cosiddetta “chiesa ricettizia”.

Le idee liberali, che si diffondono da Napoli, incontestabile capitale di cultura, trovano sul territorio fedeli seguaci proprio nella famiglia del Cardinale, come in quelle del Sindaco Riscio e del Parroco Alitto. Il nonno del Nostro, don Casimiro, è capo della vendita carbonara e con il fratello Giovanbattista è tra i fautori della sfortunata Repubblica Partenopea, breve primavera della democrazia, che avrà il contributo di sangue anche di un illustre lucano, il costituzionalista Mario Pagano di Brienza.

E Maratea, soprattutto grazie a Casimiro e Gianbattista Gennari, potrà elevare l’albero della libertà ed erigersi in Municipio Repubblicano.

Ma la vittoria del Sanfedismo del Cardinale Rufo riconsegna Napoli al Borbone e alla sua feroce repressione, da cui lo stesso Rufo prenderà le distanze e anche Maratea ne subirà gli effetti ad opera delle orde del brigante Rocco Stoduti della banda di “Fra diavolo”.

Nel 1805 Ferdinando IV, re di Napoli, ratifica un trattato con la Francia, in cui si conviene che la neutralità del Regno di Napoli, nel conflitto tra la Francia da una parte e l’Austria, la Russia e l’Inghilterra dall’altra, sarà compensata con la non aggressione del regno stesso da parte di Napoleone. Ma Ferdinando IV tradisce subito quel trattato, accordandosi con i nemici di Napoleone, che, pertanto, dopo la vittoria ad Austerliz, dichiara decaduto dal trono il  Borbone e nomina re di Napoli suo fratello Giuseppe.

Maratea, sia per essere interamente fortificata e sia  per la sua collocazione geografica si trova ad assumere una posizione strategica di estremo interesse.

I Francesi, sotto il comando del Generale Massena, avanzano verso la Calabria, conquistando e distruggendo i paesi che si oppongono a questa stravolgente impresa militare, che, ormai poco ha da spartire con i principi di libertà, di uguaglianza e di fraternità, pur così solennemente proclamati e in cui spiriti eletti hanno fortemente creduto.

Il 7 marzo 1806, invasa dal Colonnello Rematten, cade Lagonegro con grave perdita di vite umane.

L’8 agosto il Generale Gardanne sventra e atterra Lauria Superiore, mentre il Generale Ventimille incendia Lauria Inferiore. E mentre arde la “fornace di Lauria”, cadono Pisciotta, Camerota e buona parte del Cilento, non senza spargimento di sangue.

La nostra città, come noto, è articolata in due Municipi: Maratea superiore o Castello e Maratea inferiore o Borgo. Il Borgo ha Gennaro Riscio, che è stato  capo della  Municipalità repubblicana, l’arciprete don Giuseppe Alitto, i fratelli Casimiro e Giovanbattista Gennari ed i rispettivi figli, padre Giambattista Basile, francescano e fra Angelo d’Albi, paolotto, tutti liberali; ma vi sono anche i filoborbonici,  quali Pietro M. Aloise, Gaetano Siciliano e Biase Ginnari, che, al ritorno del Borbone,avevano abbattuto l’Albero della libertà.

 E filoborbonico è  il Castello, con la presenza del Colonnello Alessandro Mandarini, Vice Presidente della Basilicata e del Rettore del Santuario don Carmine Iannini (il colto autore del manoscritto di “San Biase e di Maratea” – 1835 - che sarà pubblicato nel 1985 per interessamento del sindaco Fernando Sisinni), che proviene da Napoli e mostra fedeltà alla Corona.

  Il Borgo ha accolto amichevolmente i francesi, che si sono insediati, con il generale Lamarque e il suo Stato Maggiore al Monastero. Il Castello, dove si sono rifugiati i filoborbonici del Cilento (da Camerota, Celle, etc.) si prepara ad una dura resistenza. Nella cittadella fortificata  il Colonnello Alessandro Mandarini, dopo aver lasciato la base militare dell’Isola di Dino, organizza e dirige le operazioni militari con gli ufficiali Studati, Falsetti, Guariglia, Necco e Pianese, contro i francesi, il cui esercito, ingrossato dalla truppe del Colonnello Lecchi, sferra da tre postazioni un attacco tanto violento da ridurre i macerie mura, case e chiese   (come si può ancora osservare), fino a costringere il Mandarini alla resa. E il 10 dicembre 1806, nel pianoro del Monastero ai coraggiosi e sfortunati difensori del Castello non resta che l’onore delle armi. Il Colonnello Mandarini, con alcuni seguaci, raggiungerà a Palermo, Ferdinando IV, fuggiasco da Napoli,che, una volta tornato sul trono, onorerà il colonnello marateota di alti incarichi in Calabria, ove,a San Lucido, chiuderà nel 1820 la sua esistenza.

Nel decennio francese 1806-1815 nel regno guidato prima da Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat, spira certamente un’aura più democratica: vi si decreta la fine del feudalesimo e vi si applica la normativa napoleonica, decisamente più organica e moderna.

Ma  Maratea, che almeno al Castello ha costituito una rilevante barriera all’avanzata francese, viene in un certo senso punita. Oltre l’unificazione dei due Municipi in un solo Comune, conseguente peraltro alla distruzione del Castello, essa perde lo “status” di Città libera, con tutte le prerogative ed i privilegi connessi. E il Dipartimento, per cui era a capo – come detto - di una trentina di Comuni, viene trasferito a Trecchina. Peraltro, la soppressione degli Ordini e delle Congregazioni religiosi, ordinata dal Murat, con l’incorporamento dei rispettivi beni, porta alla chiusura dei tre conventi maschili (si salva quello delle Visitantine, ritenuto dai francesi utile per l’educazione) e alla conseguente dispersione del patrimonio culturale, accumulatosi nel corso dei secoli e tutto ciò non senza grave nocumento alla vita sociale e civile.

Possiamo immaginare il disorientamento di uomini di pura fede liberale, ma anche di radicata formazione cattolica, a partire dalla Famiglia Gennari.

Quando, poi, l’astro di Napoleone, dopo Waterloo, si eclissa definitivamente e col Congresso di Vienna (1815) i sovrani spodestati recuperano i loro troni, anche Ferdinando IV torna a Napoli, ove restaura  il regime antidemocratico, che caratterizzerà fino al dispotismo anche il regno dei suoi successori Francesco I, Ferdinando II e Francesco II (il quale ultimo, tuttavia, nel brevissimo tempo che gli è dato regnare, mostrerà più umane attitudini di governo). E’ vero, il Borbone, incalzato da movimenti indipendentisti concede la Costituzione, ma sotto l’influenza della moglie, l’austriaca Carolina, si affretta vilmente a revocarla, facendo spegnere nei suoi sudditi ogni speranza di libertà. E sarà anche allora che la Famiglia Gennari terrà desta la fiaccola della democrazia, soprattutto con i figli di Casimiro: Nicola (padre del futuro cardinale e capo della Vendita carbonara) Raffaele (padre dell’altro Casimiro), Francesco, Biase, Gaetano e Giovanni, tutti registrati dal Ministro della Polizia, quali “soggetti pericolosi”.

Nel corso  dei moti, che dal 1820-21 ardono in Spagna, Grecia e Italia (Piemonte, Romagna, Campania), Nicola Gennari viene arrestato(1824). Nel giugno 1828 scoppia nel Cilento una fiera sommossa, organizzata dal canonico Antonio Maria De Luca, che  è soffocata nel sangue, mentre il villaggio di Bosco, da cui era partita la rivolta, è dato alle fiamme. Il De Luca, per placare la tragica reazione borbonica eroicamente si costituisce. Viene giustiziato a Salerno, insieme al nipote Giovanni, sacerdote anche lui. L’altro suo nipote, padre Carlo Guida da Celle, Guardiano del Convento dei Cappuccini di Maratea, solo perché sospettato di cospirazione, dopo essere stato sconsacrato dal Vescovo di Policastro, il filoborbonico Laudisio, viene fucilato di fronte al suo Convento (12 agosto 1828). Ha  appena 29 anni.

In tali frangenti il 27 Dicembre 1839 nasce da Nicola Gennari e Donna Gaetana Crispino  Casimiro il futuro Cardinale: è il sesto figlio dopo cinque sorelle. A Napoli regna Ferdinando II e Pontefice è Gregorio XVI (Cappellari), uomo mite e amante degli studi.

Intanto il movimento liberale conquista vieppiù gli animi dei cittadini, tra cui non pochi uomini di Chiesa. Peraltro, il 16 giugno 1846 ascende al Soglio di Pietro, col nome di Pio IX, Giovanni M. Mastai Ferretti, il cui pontificato durerà per oltre 31 anni. Viene dalla Romagna, patria della libertà e da una famiglia nobile e liberale. I suoi primi atti costituiscono segni inequivocabili di democrazia: concede l’amnistia politica, consente la libertà di stampa, emana la Costituzione, istituisce la Consulta con la determinante presenza di laici, sicché viene salutato quale tutore delle libertà civiche e salvatore d’Italia non solo da uomini quali Gioberti (che scrive il “Primato”) e Balbo (che edita le “Speranze d’Italia”) ma, addirittura, da Mazzini da Londra e Garibaldi dall’America.

È immaginabile la gioia di quei cattolici liberali, quali i Gennari, nel constatare che è stato finalmente infranto l’asse “trono-altare” e che l’esser liberale non significa non esser cristiano.

Ma quando nel 1848 scoppia la prima guerra di indipendenza contro l’Austria, il papa, che pur aveva mandato le sue truppe a presidiare i confini del suo Stato, ritira il suo esercito, dichiarando di non potersi associare alla guerra, stante la sua missione religiosa di padre di tutte le genti dell’Orbe cattolica. Ed ha ragione, ma grande è la delusione di quanti hanno addirittura sognato per l’Italia una Confederazione di Stati liberi sotto la guida del pontefice,tanto più che la massoneria, sempre più anticlericale, alimenta l’avversione alla Chiesa, gridando al tradimento.

Tornando alla nostra terra un altro evento segna la storia di quell’ anno. Costabile Carducci, con altri suoi amici, tra cui Raffaele Gennari, dopo aver partecipato alla citata sommossa del Cilento, si pone a capo dei moti che interessano la regione, fino ad ottenere la Costituzione ed in quel breve periodo assume il ruolo di colonnello nella Guardia Nazionale di Salerno. Ma quando il Borbone, a seguito di una sommossa del 15 maggio, scioglie il Parlamento, il Carducci con i suoi è costretto a fuggire prima a Roma e poi in Sicilia. Tenta, poi, di organizzare sommosse in Calabria, ma l’esercito borbonico rende vano ogni sua mossa e mentre cerca di rifugiarsi nel Cilento è costretto da una tempesta di mare ad approdare ad Acquafredda. I borbonici lo catturano e lo uccidono, gettando il suo corpo in un dirupo da cui viene recuperato dal sacerdote di Maratea, don Daniele Faraco,  che gli dà sepoltura nella Chiesa dell’Immacolata della stessa frazione (4 luglio 1848).

Don Nicola Gennari, che in  quel tempo riveste l’incarico di Comandante della Guardia,  dopo essere stato sindaco di Maratea negli anni 1832-34 e dopo aver prestato servizio alla Dogana dal 1842, viene accusato di aver agevolato la fuga dei superstiti, tra cui il fratello Raffaele. Da quel momento don Nicola sarà ancor più sorvegliato dalla polizia, che gli rende sempre più difficile l’esercizio della professione forense e lo trasferisce a Moliterno. Ma la giustizia borbonica si accanisce soprattutto sul suddetto fratello, il quale, dopo aver arringato la folla in nome della Libertà, nel Teatro di  Maratea, viene arrestato e condannato a morte (condanna poi convertita in 24 anni di lavori forzati, ridotti nel 1853 a 12 ). Dal carcere di Salerno nel 1859 viene trasferito a quello di Procida e, quindi, al domicilio forzato a Scalea, mentre suo figlio, il piccolo Casimiro, è rinchiuso in un serraglio (toccante è l’incontro a Napoli tra i due cugini Casimiro) mentre le due figlie Pertonilla e Scolastica vengono accolte in convento dal Vescovo di Cassano.

Intanto, nel 1849, si è instaurata la Repubblica Romana con Mazzini, Armellini e Saffi, costringendo  Pio IX a lasciare Roma (come già Pio VI e Pio VII), ove potrà tornare l’anno dopo solo grazie ai francesi del generale Oudinot.

Nello svolgersi di tali drammatici eventi, che certamente portano grave turbamento nella famiglia Gennari, il Nostro, appena adolescente, si avvia agli studi secondari, trasferendosi a Salerno (1851), ove frequenta il Regio Liceo e il Real Collegio Picentino di San Luigi (tenuto dai Gesuiti), meritando, per l’eccellenza scolastica e le doti morali il premio detto “Giglio d’oro”. Nel 1857 passa a Napoli per studiare presso il Collegio dei padri Gesuiti, annesso alla Chiesa del Gesù Vecchio. Il 17 giugno 1860 il giovane Gennari professa i voti minori e prende l’abito ecclesiastico. È l’anno della spedizione dei Mille. Il 3 settembre di quell’anno Garibaldi, vittorioso sul Borbone, sosta a Maratea, nella casa baronale dei Labanchi alla Secca di Castrocucco) da dove si imbarca per Sapri - il cui nome basta a rievocare il sacrificio di Carlo Pisacane. Raffaele Gennari, rientrato finalmente libero nella nostra città, vi promuove la costituzione di una Giunta, ma, impossibilitato da una infermità di seguire il “Liberatore”, gli invia il figlio quindicenne Casimiro, restituito alla famiglia dal serraglio. E con Casimiro è un altro ragazzo di Maratea. Si chiama Carlo Luigi Mazzei Lieto, nato a Capocasale il 29 dicembre 1844 da Pietro e Rosanna Barone. Entrambi si arruolano nelle Camice rosse e faranno parte dei Mille. Carlo morirà da eroe nei pressi di Maddaloni il 1° ottobre di quell’anno. E Maratea lo ricorderà intitolandogli la via che lambisce la sua casa di Capocasale.

Tre anni dopo, il Nostro riceve la consacrazione sacerdotale a Cosenza, appartenendo allora la nostra comunità alla diocesi di Cassano allo Ionio e dopo aver celebrato la prima messa a Paola, dov’è trattenuto da una tempesta di mare, raggiunge Maratea, ove,  si fermerà  per ben 18 anni.

È da notare subito che la formazione del giovane Gennari è curata dai Gesuiti, la Congregazione religiosa, fondata da Ignazio di Loyola, che si ispira a Francesco d’Assisi e che diviene subito famosa per la cura teologica e culturale dei propri religiosi, ma, anche, per la capacità di apertura sociale alle “res novae” del mondo: sono i Gesuiti che possono vantare il celebre esperimento di “Comunismo evangelico”, noto come la “Repubblica del Paraguay”, di cui dirà magistralmente Ludovico Antonio Muratori ed il primo Ordinamento scolastico, fondato sulla “Ratio studiorum”.

Merita, altresì, di essere rilevato che tale formazione avviene fuori del seminario e perciò in ambiente laico, il che significa non poco per la verifica della vocazione religiosa, certamente più esposta alle prove della mondanità, ma, anche, a quelle istanze socio-politiche, che innervano la vita civile del tempo.

È anche da considerare, per quanto riguarda il “corsus studiorum”, che la soppressione della Facoltà di Scienze Sacre, disposta dal neo Stato italiano non gli consente il conseguimento della laurea e che tuttavia l’approfondimento di studi severi ancora presso i Gesuiti, da esterno e poi da autodidatta, terrà i suoi scritti importanti, scevri da ogni formalismo accademico.

A Maratea il Gennari, come è stato scritto, è sacerdote esemplare, apostolo infaticabile, studioso attento, da tutti ammirato per l’abnegazione, l’edificazione e la carità e qui fonda, il 31 marzo 1876, l’importante organo di informazione della normativa e degli atti della Santa Sede, col nome di Monitore Ecclesiastico (mutuando forse questo titolo da un importante giornale napoletano del decennio francese).

Dal piccolo paese il Monitore, che colmerà una grave lacuna nel campo delle scienze e del diritto canonici, ha una larghissima diffusione ben oltre l’Italia, facendo conoscere questo giovane prete, che sarà subito stimato, non solo per la solida dottrina, ma anche per le forti doti di equilibrio, di  saggezza e conoscenza e discernimento delle istanze e delle novità di un’epoca in continua evoluzione. E il Monitore, che persegue il fine della formazione attraverso l’informazione, accredita sempre più il Gennari quale maestro di vita e, grazie anche alla accessibile semantica adottata , quale esperto della comunicazione ante litteram.

Non deve perciò sorprendere che un papa colto ed aperto come Leone XIII (l’autore, tra l’altro della “Rerum novarum”), come già i vescovi di Policastro, Mons. Cione e Conversano Mons. Basile, abbia profonde ragioni per apprezzarne la dottrina e lo zelo, sicché nel 1881 lo nomina Vescovo di Conversano, nel 1895 lo chiama a Roma quale Assessore del Santo Uffizio, nel 1897 gli conferisce il titolo di Arcivescovo di Lepanto e nel 1901 lo eleva alla dignità di Cardinale di Santa Romana Chiesa.

La biografia e la bibliografia di Casimiro Gennari sono piuttosto note e non sta a me rievocarle, tanto più che gli illustri Relatori di questo convegno sono incaricati di evidenziarne la figura (e la letteratura) soprattutto quale Pastore e Giurista.

Abbiamo in precedenza insistito sulle peculiarità del suo tempo onde comprenderne meglio la storia e la statura. E tra i fattori formativi abbiamo citato la famiglia, che fu certamente nobile e antica. Sappiamo già di un don Francesco Gennari attivo nel XIV secolo e di non pochi personaggi noti per la cultura e la religione, tra cui il Vescovo Onofrio, morto nel 1805. E qui ci piacerebbe soffermarci sulla mamma del Cardinale, donna Gaetana Crispino, di famiglia religiosissima (ricordiamo il parroco don Antonio Crispino di preclare virtù, che succede a don Luigi Marini) la quale certamente influì sull’educazione del figlio, accompagnandolo, almeno nei primi anni, nell’esemplare itinerario religioso.

Ma qui, val la pena di riflettere ancora su qualche aspetto forse finora non sufficientemente evidenziato, da cui più chiaramente riluce la sua santità.

Il primo tema che mi permetto proporre afferisce al suo pensiero. Come è desumibile dai numerosi suoi scritti a partire dal Monitore Ecclesiastico, le Consultazioni e le Questioni morali, canoniche e liturgiche, la sua speculazione  trae luce dalla filosofia di Tommaso d’Aquino e, per quanto concerne la dottrina giuridica, dall’opera di Sant’Alfonso Maria dei Liguori – il Santo del Secolo dei Lumi –  che investono primariamente il problema della ragione e della fede, ma, anche, della tradizione e del progresso.

Per il Nostro la ragione e la fede non sono in conflitto tra loro, ma, piuttosto si integrano in quel processo di continuo perfezionamento, che San Bonaventura identifica nell’ “Itinerarium mentis in Deo”.

L’uomo tende naturalmente a Dio e la ragione cerca di raggiungerLo, ma trova il suo limite nel limite stesso dell’esperienza, ovvero di quanto è  sperimentabile.

Pascal avverte che Dio si nasconde a chi lo tenta,  ma si rivela a chi lo cerca. E tentare Dio significa volerlo raggiungere con la sola capacità razionale, cedendo a quella che Kant chiama l’”arroganza della ragione”. Cercare Dio vuol dire, invece, contare, si, sulla ragione, ma nel limite dell’esperienza e affidarsi poi alla fede, che sola consente di andare oltre quel limite, verso il fine ultimo, che è appunto Dio e ciò nella consapevolezza che “la fede - come ha detto San Paolo – è la prova delle cose non vedute” e che la stessa è elevata da Cristo a beatitudine, come leggiamo nel Vangelo della “Pentecoste giovannea” (Giovanni XX, 19-31).

Dunque, la ragione è essenziale alla ricerca, ma non sufficiente a varcare la soglia: essa è dono di Dio e perciò  lungi dall’esser negata, deve essere usata, sapendo, tuttavia, che il trascendente supera le sue possibilità. All’uomo è data – come insegna Agostino, con la libertà, la grazia della fede, che è l’adesione dell’intelligenza alla Verità rivelata . Tutto ciò per il Gennari significa che l’uomo è, si, essere razionale, ma anche soggetto di grazia e la grazia – come afferma Tommaso – non elimina la natura, ma la perfeziona: “Quanto mai è preziosa la grazia – scrive nei sui illuminanti Pensieri il Cardinale  – Niuna cosa creata può reggere al paragone con questa”.

Ecco perché egli può dirsi un pensatore illuminato, ma non illuminista, posto che l’Illuminismo esclude, anzi avversa tutto ciò che non è riconducibile alla ragione: la trascendenza, la metafisica e, perciò,  Dio, l’immortalità, l’anima.

Ma l’Illuminismo condanna anche la tradizione, quale pregiudizio storico, di cui l’uomo di ragione deve liberarsi.

Vero è, invece, che la tradizione (come anche etimologicamente si comprende), non contraddice ma rinviene in se stessa il fondamento del progresso.

Il Gennari supera perciò felicemente la divisione anche accademica, che al suo tempo impegna in distinte Scuole menti insigni nell’ambito della stessa Chiesa, per cui,  da una parte si pongono i sostenitori della tradizione, dall’altra quelli del progresso.  Egli invece apprezza il valore della tradizione, consacrata nella storia e nella dottrina della Chiesa, senza perciò essere “tradizionalista” e si apre al nuovo senza essere “modernista”, ovvero senza cadere nell’errore immanentistico proprio del Modernismo (la cui condanna (1907) cade non a caso nel periodo di più intensa collaborazione del Nostro con Pio X). Verrebbe da dire che il Gennari, come tutti i grandi dell’Umanità, il cui pensiero resta nel tempo perennemente attuale, è moderno perché è antico! E nuovo è certamente il suo pensiero politico, che non vuol contraddire, ma piuttosto modificare l’atteggiamento della Chiesa, che discende dal “Non expedit” di Pio IX (1874) e che, come noto, inibisce ai cattolici la partecipazione all’elettorato politico attivo e passivo.

Nella sua opera “Sui doveri dei cattolici nelle rappresentanze politiche” egli dimostra che tutti e anzitutto i cattolici hanno l’obbligo di partecipare alla vita pubblica per il conseguimento del “bene comune”. Orbene, un pensiero così moderno ha forti radici antiche. Non deve perciò sorprendere di trovare in tale opera, tra l’altro, l’eco fedele delle Lettere di una santa medievale, Caterina da Siena, che , a sua volta si rifà a San Tommaso d’Aquino, il quale, come è stato detto, cristianizza Aristotele, anche nel pensiero politico.

La presenza attiva nella vita parlamentare, come nella guida delle singole comunità civiche presuppone nei singoli uomini virtù civili e morali senza le quali non avrebbe senso e fondamento proprio l’impegno politico, se fine di questo è il bene comune, ossia il benessere materiale e morale di tutti, in assenza del quale non v’è giustizia e non vi è pace, perché, anzitutto, non v’è amore. Ma v’è di più: non si può volere il bene degli altri senza essere autentici testimoni di Cristo, che ha amato gli uomini fino alla consegna di se stesso alla morte e alla morte di croce e giacchè, come afferma Tommaso,  “Totum homo est et quod potest et habet ordinandum est ad Deum”, la legge, che deve essere diretta a tale fine, è giusta solo se “ad bonum commune ordinatur” (S. T. h. I-II).

L’impegno dunque per il bene comune, a partire dalla giustizia, comporta primariamente la responsabilità dei soggetti politici, che devono saperlo procurare ed assicurare attraverso, appunto, la legge giusta e l’azione corretta di governo, sia nel contesto nazionale, sia in quello cittadino. Essi devono in loro stessi “far rilucere  – afferma Caterina – la margarita della giustizia acciocché giustamente (sia reso) a ciascuno il debito suo” (Lettera 337). Ma perché dalla giustizia discende la pace e l’una e l’altra sono effetto di amore, il politico deve spogliarsi dell’”uomo vecchio” … “e vestirsi dell’uomo nuovo, Cristo … seguitando le sue vestigia” (Lettera 367), cioè “il dolce e amoroso Verbo (che) corse come innamorato all’obbrobriosa morte” (Lettera 258). Dunque è l’amore che, attraverso la giustizia e la pace, assicura una vita ordinata e serena, in quella che Caterina chiama “la città prestata”.

In tal contesto vorrei concludere, rammentando che Casimiro Gennari in tutta la vita di uomo e sacerdote, di pastore e giurista, ha assunto quale obiettivo preminente la “salus animarum”. Egli sente che la sua vocazione è quella indicata da Paolo: vivere con Cristo per collaborare al progetto della salvezza dell’uomo. Le vie sono tante e diverse quante le occasioni e le testimonianze dell’impegno, che per lui è soprattutto apostolico, sia nella pratica pastorale ispirata a quella carità, che è comprensione e dedizione, sia nell’esperienza e negli studi, diretti alla formazione dei giovani e del clero, come all’edificazione di tutto il popolo di Dio. Ma non si può essere apostoli di Cristo, se non si è santi con Cristo. La santità, presuppone la comunione con Dio: un anticipo in terra della “theosis”, che è la nostra promessa di Paradiso. Ma la gloria della theosis presuppone lo scandalo dell’Incarnazione e perciò della passione e morte di Cristo, di cui la Messa è il Memoriale. Alla luce di tanto ben si comprende il suo pensiero nei confronti, in particolare, dei consacrati : “Il sacerdote si sforzerà di riprodurre nella propria anima ciò che si produce sull’altare del sacrificio”.

Il Vangelo è così per lui il libro della vita e perciò il riferimento costante nella predicazione, come nella scrittura e nel sacerdozio , il faro che gli indica la rotta nella tempestosa navigazione della storia, sia quando questa si fa “Questione meridionale”, ( che tanto lo sensibilizza sul piano della giustizia sociale), sia quando la stessa si identifica nella “Questione romana”, (che lo impegna nella ricerca di quelle soluzioni, che diverranno norme concordatarie anche se solo nel 1929). Evangelica  è la carità, che lo fa profeta di quella povertà francescana, che significa, da un canto, condivisione  alla sofferenza di chi non ha e, dall’altro, distacco da ogni cosa che troppo sentiamo appartenerci. Ed è evangelica ancora la carità nella diffusione della conoscenza anzitutto della Verità rivelata e, in quanto da questa discende, della dottrina della Chiesa: un obbligo, questo, assunto come missione, chè altrimenti non avrebbe senso un impegno così gravoso ed assorbente quale il Monitore Ecclesiastico, ma, anche, la codificazione del Diritto Canonico. Ed evangelica è, infine, la carità che si concreta nell’impegno sociale e politico, che induce alla partecipazione alla cosa pubblica per il conseguimento del bene comune.               

Tutto ciò ci fa concludere che il Gennari entra di diritto in quella galleria dei grandi cattolici liberali, religiosi e laici, che hanno scritto e operato  per la promozione dell’uomo e il bene del Paese e che rispondono al nome di Gioberti, Lambruschini e Rosmini, Balbo, D’Azeglio, Manzoni e Pellico, fino a San Giovanni Bosco, che, come il Nostro, amante della Chiesa e della Patria, ebbe cara, in particolare, la formazione dei giovani. Peraltro S. Giovanni Bosco e il Cardinale Gennari hanno in comune la data del “dies natalis”: 31 dicembre.

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Ho molto desiderato che fossero i giovani a far propria la memoria di questo insigne figlio di Maratea perché solo i giovani possono farla vivere, nel tempo nuovo che a loro è dato, nel senso vivo di una proposta di esempio, di guida, di riferimento. E sono grato che tale desiderio abbia trovato una così positiva risposta nella gioventù studiosa di Maratea e di quanti frequentano i suoi Istituti, che ora si preparano a darne prova attraverso una produzione letteraria ed espressioni artistiche, certamente apprezzabili.

È, invero, questo un desiderio “antico”. Ricordo a me stesso – e lungi da  qualsiasi tentazione di autoreferenzialità - che si era negli ormai lontani anni  1952 - 53, in cui più o meno coetaneo dei giovani che oggi vivacizzano questo convegno, mi trovai tanto preso dalla lettura della vita e delle opere del Cardinale da chiedere a chi di competenza di intitolargli l’Associazione, che allora guidavo: la G.I.A.C. (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), di dare il Suo nome alla Scuola Media Statale allora istituita sotto la guida della cara prof.ssa Letizia Labanchi e di cui, appena diciottenne, ero segretario e, addirittura, di  scrivere – e Dio mi perdoni ! – una canzone, col compianto Massimino Vernucci, sulla Villa Comunale, che di Lui porta il nome.

Quello spirito giovanile, nonostante il tempo che inesorabilmente “ruit”, mi ha portato a promuovere, con altri, la commemorazione , nel 1977, del centenario del Monitore Ecclesiastico, nel 1989, del centocinquantesimo anniversario della nascita ed ora del centenario della morte.

Voglia Iddio che i giovani di oggi possano in un non lontano futuro celebrare il Cardinal Casimiro Gennari, non solo come il più illustre figlio di Maratea, ma come il più santo di questa terra stupenda, che fu già, nella Basiliana Eparchia del Mercurion, patria di santi eremiti e profeti.

 

Francesco Sisinni

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